Galeffi è un cantautore romano, classe 1991, pseudonimo di Marco Cantagalli. Artista a tutto tondo, da quasi 15 anni scrive musica per sè stesso e anche come autore.
Fin dal suo album d’esordio Scudetto, uscito nel 2017 per Maciste Dischi, desta immediatamente un grande interesse da parte di pubblico e critica, collezionando milioni di streaming e portando l’artista a fare in meno di un anno 70 date nei principali club e festival italiani, spesso sold out, passando per il concertone del Primo Maggio di Roma e dal Mi Ami Festival di Milano.
Ora Marco è pronto a tornare sui palchi di tutta italia portando il suo album BELVEDERE, che non ha ancora avuto la possibilità di presentare dal vivo.
Ciao Marco, vorrei farti alcune domande soprattutto in vista del tuo tour che sta per partire adesso, dopo un lungo periodo senza live, praticamente 3/4 anni senza suonare, 2 dischi che ancora non hai portato dal vivo. Cosa rappresenta per te la musica live?
Tutto. Rispetto ad altri colleghi del famigerato indie, che magari hanno messo il pezzo su YouTube o Spotify e la roba poi è esplosa su internet, magari non tutti lo sanno ma io suono nei locali a Roma dal 2010, non come Galeffi, ero in alcune band che facevano pezzi in italiano o inglese. Nello specifico di Galeffi esce la prima traccia, (Occhiaie), nel 2017 e il disco a ridosso del 2018.
A Roma mi chiamavano i localari per aprire i concerti di quelli che oggi sono colleghi miei perché sapevano che nel giro degli emergenti ero uno di quelli più stimati a Roma, ancora prima di avere un etichetta.
Magari al Monk suonavano i Canova e Galeffi li apriva, suonava a Roma Gazzelle e Galeffi apriva il concerto. Si era creato un piccolo culto a Roma, la gente sapeva tutte le canzoni del primo disco, anche se non era uscita nemmeno una canzone. Piano piano questa voce è arrivata alle etichette indipendenti, Maciste la prima fra tutte, da lì contratti e dopo un po’ sono uscito. Nasco dal live, per me è fondamentale. Sono 12 anni che suono.
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Che formazione porterete in live?
Siamo 5 compreso me; un batterista, un bassista, chitarrista, tastierista che è mio fratello e io. Noi tutti, tranne il batterista, suoniamo più strumenti, ce li giriamo.
Invece la musica dal vivo come pubblico, cioè assistere a un live, che cosa significa per te?
Sicuramente mi fa venire in mente tante cose di famiglia, sono partito come un predestinato se vuoi, i primi due live della mia vita sono stati uno il concerto di Bruce Springsteen con mio padre che mi portò all’Artemio Franchi di Firenze in trasferta, mio padre è un fan accanito. Pochi mesi dopo suonava Santana a Roma, al palazzetto dello sport e Santana mi chiamò sul palco, io avevo 9 anni, suonai con lui Oye Como Va.
Mia madre fa la biologa e mio padre è laureato in medicina, anche se poi non fa il medico ma lavora nell’ambito della medicina, una professione tutta sua, fa tipo il consulente di ospedali e farmacia. Non c’entra nulla con la musica, mio padre era più sul rock come Bruce Springsteen, Santana o il jazz di Miles Davis, mia mamma invece l’anima pop della famiglia dagli Oasis ai Beatles a Fiorella Mannoia, io penso di aver preso influenze da tutti e due, penso di essere comunque pop ma ho anche nella voce delle robe jazz, soprattutto delle armonie, anche se magari non sembra, molto elaborate.
Da dove nasce il nome Galeffi?
Da mamma, è il cognome di mia mamma.
Quali sono le influenze musicali che un cantautore di indie italiano del 2022 può avere? Ascoltando il disco mi sono accorto che ci sono molti accordi che vengono da posti più disparati, magari 20, 30 anni fa erano pochi gli artisti che si permettevano di spaziare (Lucio Dalla, Pino Daniele), adesso la musica è più mischiata. Da dove prendi tu, a parte i tuoi genitori?
Sicuro da Lucio e Pino che sono stati fonte di ispirazione. Forse esclusi Battisti, De André e Dalla che sono su un podio mitologico, devo dire che se proprio devo scegliere una scuola mi sento molto vicino alla scuola genovese, escluso Battiato che fa a sé, chiaramente è siculo. Diciamo Tenco, Gino Paoli, Bruno Lauzi, De André stesso, la scuola genovese la sento come cuore più vicina. Ascolto tantissima musica estera, mi piace molto la musica francese, ascolto da Stromae ai Justice, ai ieir, a Edith Piaf a Gainsbourg, Léo ferrè, Jan Tiersen, Daft Punk, è probabilmente la musica che ascolto di più. Ascolto tantissima musica classica, infatti suono il piano, la chitarra la strimpello, di base tutte le mie canzoni nascono dal pianoforte, non che sia un pianista classico, sono un pianista a malapena discreto.
Mi piace tanto il jazz, il rock quello dai Nirvana ma di più quello britannico, i Blur su tutti, gli Oasis, i Beatles neanche te li cito che fanno proprio un campionato a parte. Anche tanto Blues, Soul, i neri da Ray Charles a Amy Winehouse che non è nera ma per la voce si, Mothan, Kiwanuka, Nutini. Insomma la musica bella ce la sentiamo.
Com’è cambiato il tuo lavoro, la tua passione dopo il covid?
Si è complicato il mio lavoro, come ben sai i live sono il 60% del guadagno del musicista, calcolando che i dischi se ne vendono pochi e tutta la musica che sta sul digitale non guadagni quasi nulla in proporzione. A meno che non hai tanti follower su instagram e hai degli sponsor, ma non faccio parte di questa categoria io. Se i live non ci sono da 4 anni la mia professione si è complicata da un punto di vista economico ma forse anche per questo si è rafforzata perché quando le cose vanno bene sono bravi tutti a dire che bello faccio questo nella vita, quando le cose vanno male, c’è stata una pandemia… la sfortuna mia è stata che quando è uscito Settebello, il disco della conferma che doveva essere la risposta al primo tour e al successo del primo album. Ho dovuto fare tanto lavoro e aspettare, chiaramente con la pandemia anche i discografici avevano paura a pubblicare tanta musica. Quindi il lavoro si è complicato ma forse anche per quello la passione e il perfezionismo, il cuore e la pancia è più presente in questo disco che negli altri lavori e dubito che ne troverete altri in altri lavori di altri, faccio un po’ il presuntuoso.
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Come vivi il tuo lavoro di autore? Com’è per te scrivere canzoni per altre persone?
È bello, mi piace tanto, ti deresponsabilizza, quando scrivi per te hai un dialogo interno che ti boccia quasi l’85, 90% delle cose, molte anche belle, ma tu dentro di te sai che puoi fare molto di più, magari però non ci riesci e torni a riprendere le cose che avevi scartato. Quando scrivo per altri lo faccio sempre pensando alla bellezza, al meglio, ma è ovvio che ti puoi buttare nelle metriche moderne, vedere come ti girano nella bocca, in quella degli altri. È molto figo scrivere per il sesso opposto perché la magia della stessa canzone che tu hai scritto magari al maschile, pensandola su di te, scritta in prima persona e quindi può essere cantata sia da una donna che da un uomo. Sentendola cantata da una donna che è una brava interprete, è come se cambiasse la canzone. È una cosa che mi affascina.
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Quali sono gli obiettivi del tuo progetto artistico?
Non lo so, banalmente mi piacerebbe consolidare il giusto per fare questo mestiere fino a che mi va, vorrei essere io a decidere quando smettere e non che la mia carriera mi dica che ho smesso, vorrei smettere perché lo decido io, vorrei che la cosa si stabilizzasse sempre di più, magari che aumentasse ma anche cosi va bene. Non abbiamo tredicesima, quattordicesima e malattia, di conseguenza devi fare un po’ più cassa se pensi alle pensioni, momenti no come un’altra pandemia, una guerra mondiale. Il mio desiderio è che questa cosa si consolidasse a tal punto che se poi un domani mi sono rotto i coglioni decido io di smettere e fare un’altra cosa, piuttosto che mi è andata male fai a fare un’altra cosa.
Conclusioni
Galeffi è un artista che calca palchi da più di dieci anni, conservando un’estrema umanità, semplicità ed una spensieratezza che si scontra con la realtà, non sempre un contesto agile in cui muoversi come artista. Nonostante ciò ha sempre conservato naturalezza e passione nella musica, aspetti che si rivedono riflessi nella sua produzione e nel disco BELVEDERE.