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Interviste

“Il pop è un genere underground che ce l’ha fatta”: intervista al team di produzione multiplatino ITACA

“Il pop è un genere underground che ce l’ha fatta”: intervista al team di produzione multiplatino ITACA

Federico, Giordano, Leonardo ed Eugenio sono ITACA, team di produzione musicale artefice di svariate hit italiane.

Ghali, Sangiovanni, Elodie, Shade e tanti altri big della musica italiana infatti devono il loro successo (anche) alle produzioni di questi ragazzi che, partiti tutti dalla musica elettronica, hanno poi ampliato e sviluppato man mano le proprie skills fino a trovare le formule vincenti per realizzare, prima ancora che milioni di stream, canzoni che finalmente ci rendono orgogliosi dello stato di salute del mainstream italiano.

Ho avuto il piacere di incontrarli in studio per la loro prima vera intervista insieme, così da capire di più sul loro lavoro e su cosa c’è dietro un grande successo nazionale.

La chiacchierata ci ha portato a toccare anche altri temi, come l’importanza del confronto (sia all’interno del team che con artisti/autori/collaboratori vari con i quali entrano in contatto) per crescere, il processo di produzione e di decodificazione del complesso mondo dell’elettronica verso il pop più accessibile, il songwriting, la relazione tra hit italiane e internazionali e molto altro.

Buona lettura.

Ciao ragazzi! Vi va innanzitutto di introdurvi per chi non vi conoscesse singolarmente?

Giordano: Io e Fede siamo in arte Merk&Kremont, già duo di dj e produttori. Abbiamo iniziato a Milano quando c’era la moda del DJ/PR, ovvero il dj che per poter suonare doveva portare persone. Abbiamo però subito capito che quello che ci piaceva fare era stare in studio a produrre…

Federico:…a me invece piaceva portare la gente! (ride, ndr)

G: Tra l’altro c’è un aneddoto di Fede che raccontiamo sempre quando parliamo dei nostri inizi

Quale?

F. Il giorno del mio compleanno suonavo all’Old Fashion (famoso locale di Milano, ndr) per i miei 18 anni. Ovviamente facendo la festa lì mi sono messo a suonare, ma dopo 20 minuti vedo che la pista inizia a svuotarsi. Pensa che brutto, poi al mio compleanno oltretutto!
Da quel giorno allora mi sono promesso di non suonare più finchè non sarei riuscito a portare una mia canzone in discoteca. Poi vabbè, l’ho portata e faceva schifo, quindi non è cambiato niente.
Però in seguito io e Giordano abbiamo iniziato a fare musica insieme in una vecchia cantina, sia per noi che per il progetto Il Pagante, quindi diciamo che alla fine è andata bene.

Leonardo: Io invece ho iniziato con la musica classica, vengo dallo studio del violino al Conservatorio. Ho poi intrapreso il mio progetto da dj Flatdisk nel 2012, e da lì ho iniziato a suonare un po’. C’era già affiatamento tra di noi perchè con Merk&Kremont condividevamo il manager, mentre con Eugenio ci scambiavamo le tracce e davamo feedback a vicenda. Successivamente nel periodo chiamiamolo post-EDM (tra il 2016 e il 2017) abbiamo iniziato a produrre anche per altri.

Eugenio: Sì, diciamo che siamo arrivati nel momento dell’esplosione della bolla EDM. L’incontro poi con Fede e Gio ci fu con Hands Up (brano di Merk&Kremont ft. DNCE, ndr): mi ricordo che ero in cantina da Fede e gli avevo fatto sentire qualche demo, tra cui appunto questo brano, che loro hanno fiutato. Una volta finita abbiamo iniziato a lavorare insieme.

Ma vi siete subito trovati in studio o c’è voluto un po’ per trovare la giusta chimica? Dato che è piuttosto inusuale vedere un team di quattro persone solo alla produzione.

E. Secondo me sì, ci siamo trovati subito. Considera che io e M&K veniamo proprio dagli stessi ambienti, anche extra musica. Io tipo ero al liceo con Gio e mi ricordo che a 14 anni provavamo a fare delle basi hip hop orrende (ride, ndr)

G. Umanamente ci siamo trovati subito, artisticamente è stata una terapia d’urto, nel senso che ovviamente non eravamo abituati a lavorare insieme, e farlo significa innanzitutto condividere i progetti (cosa molto difficile perchè ogni produttore ha il suo schema, i suoi gruppi, le sue reference ecc.). Abbiamo dovuto creare insieme un metodo che funzionasse per tutti.

L. Ci avvantaggiava però il fatto che usavamo tutti lo stesso programma, Ableton Live.

Farfalle di Sangiovanni è prodotta da ITACA. Il brano si è classificato quinto al Festival di Sanremo 2022.

A proposito di metodo, in studio avete ruoli divisi? O tutti mettono testa su tutto?

G. Tutti mettono testa su tutto, e a volte anche il becco (ride, ndr). Scherzi a parte, è bello utilizzare i punti di forza di ognuno e portarli sul progetto. La cosa che però ci differenzia e ci aiuta è proprio la possibilità che tutti abbiamo di aprire lo stesso progetto e sistemarlo, senza dover fare gli stems o chiedersi pareri. E poi alla fine siamo sì sempre insieme tutti i giorni per scambiarci feedback live, però possiamo comunque lavorare autonomamente su determinati brani. Quindi questo metodo ci permette di essere flessibili, sia in squadra che nelle singole idee.

Il team di produzione ITACA nel proprio studio. Foto di Riccardo D’Amico.

Passando al lato creativo, quello che mi colpisce delle vostre produzioni è il fatto che riusciate a prendere dei sottogeneri della musica elettronica ed evolverli in modo naturale in brani pop. Secondo voi c’è (anche) questo tra le formule del vostro successo?

L. Principalmente facciamo quello che ci piace. Veniamo dal mondo dell’elettronica, quindi i suoni che abbiamo nel nostro bagaglio culturale sono quelli, poi li applichiamo nella musica pop trasformandoli in una maniera che possa essere digeribile per il pubblico che ascolta la radio, la televisione, dove possa esserci una voce. Estrapolarli da quei codici che ci sono nella musica elettronica.

F. Vero, unire i codici dell’elettronica con quelli del pop. L’arrangiamento di quest’ultimo ma con i suoni di altro genere, è questa la chiave. Se ci pensi è un po’ quello che è successo anche su LA DOLCE VITA (brano di Fedez, Tananai e Mara Sattei prodotto da d.whale, ndr), solo che in quel caso è stato reso pop un pezzo anni ’60.

Furore di Paola & Chiara, classificatasi diciassettesima al Festival di Sanremo 2023, è prodotta da ITACA

E fin dove arriva il vostro lavoro? Oltre alla semplice produzione musicale sento che anche il lato songwriting è presente e molto importante in ciò che fate.

G. Parte del nostro lavoro è fare session con autori, che ovviamente sono specializzati nella scrittura di testi e topline, che venendo in studio cercano di assecondare un po’ le nostre fantasie. Il nostro compito poi è quello di indirizzare gli autori e di fargli fare quello che noi abbiamo in mente. Poi sì, anche noi autonomamente abbiamo fatto delle prove di songwriting puro, ma una cosa che ci aiuta tanto è focalizzarci sulla produzione, e quindi lasciare che siano gli autori ad individuare quella parola giusta, quel tipo di colore e di topline che possa essere il più funzionale possibile. Anche con loro si tratta di un lavoro in team.

L. Diciamo che è come se gli autori ci dessero degli strumenti, delle formule o delle melodie e noi selezionassimo le più adatte al brano. C’è comunque uno scambio di idee e una coordinazione reciproca

F. Il che è totalmente diverso dall’approccio “mandami la base che ci scrivo su“. C’è molto più coinvolgimento ed energie che si creano quando siamo insieme. Da uno spunto ne nasce un altro e così via, è come un brainstorming.

G. Un altro aspetto fondamentale di creatività che abbiamo appreso negli anni è che alla fine ci sta dare spazio e lavorare con altri talenti ed eccellenze, in tutti i campi. Anche nel mix e master ad esempio, noi saremmo sì in grado di portare a termine il mix, però è bello affidarsi ad altri professionisti, perchè è sempre stimolante capire come migliorarsi. Per dire che, tornando al songwriting, noi potremmo benissimo scrivere solo con gli artisti o da soli, ma la verità è che quando lavori con nuove teste cresci.

L. Esatto, è proprio quello. Quando stai lavorando a una produzione hai una visione molto soggettiva, e quindi è come se non riuscissi più ad avere la capacità critica di come andare avanti. Perciò anche solo il fatto di non essere sulla macchina in prima persona ma passare all’ascolto e affiancarsi ad un altro produttore ti cambia il punto di vista. Il motivo per cui ci scambiamo i progetti infatti è perchè ci aiuta a ottenere un risultato migliore.

Un altro team che, visto il background e le cose in comune, spesso accosto al vostro progetto è quello dei MEDUZA, che hanno sviluppato a modo loro i codici dell’elettronica ma su scala internazionale. Merk&Kremont sono un progetto che ha raggiunto ottimi risultati anche all’estero, ma a voi quattro insieme non è mai passata l’idea di un side project o di un qualcosa che vi possa portare a produrre musica elettronica per riprendere i vostri percorsi iniziali?

G. Più che con la musica elettronica ci piacerebbe uscire dall’Italia come produttori per terzi. Il modello a cui ci ispiriamo è quello di Max Martin (Britney Spears, Backstreet Boys, Taylor Swift ecc, ndr) però è anche vero che il fattore geografico è sempre un limite.

Internet quindi non ha abbattuto del tutto queste barriere?

G. Il fatto è che essendo a Milano attiriamo in maniera spontanea autori, artisti, manager, etichette che vengono in studio fisicamente e regolarmente.

F. Sì, è vero che si dice che si possa anche essere sperduti nel nulla, però la presenza fisica alla fine è importante. Vedi gente, conosci artisti la sera e il giorno dopo ci sei già in studio insieme ecc. Essere nel posto alla fine serve.

G. Ti porta automaticamente anche a ragionare in quei termini. Nel senso che quando sono in macchina e ascolto in radio un brano di Madame, l’idea mi viene per lei. E poi un’altra cosa che abbiamo imparato andando in USA a scrivere e produrre è il fatto che molti rapper e artisti hanno talmente tanta scelta e opzioni per fare session e prendere strumentali che alla fine non stanno neanche a perderci tempo. Si trovano con uno e scrivono, stop.

F. Infatti avevo letto qualche tempo fa un’intervista di Murda Beatz dove consigliava ai ragazzi emergenti insicuri di buttarsi, semplicemente. Secondo lui lì il 20% è musica e l’80% è business, ovvero essere al posto giusto nel momento giusto con la persona giusta.

G. In parte è vero. Ovviamente saper produrre è il requisito minimo necessario, su quello non ci piove. Anche noi dobbiamo farci trovare pronti con produzioni di qualità confezionate nel minor tempo possibile, ma poi parte delle cose fighe che succedono è perchè ci si è capitati dentro.

L. E poi all’estero c’è completamente un altro modo di lavorare e un altro mercato. In Italia ci mettiamo molta più cura nelle cose, mentre loro in mezz’ora fanno una session e passano subito all’altra, è molto più una catena di montaggio. Secondo me c’è anche un po’ meno cura della melodia rispetto a noi italiani.

F. Sì, sembra assurdo ma noi siamo molto più ricercati nelle parole e nelle melodie. Se rifai un qualcosa di successo in italiano da noi è considerato trash, mentre in America e Sudamerica quelle tracce diventano hit.

Effettivamente se pensi alle ultime cose di David Guetta o dei Black Eyed Peas è andata proprio così…

F. Capito? Se fai una roba di quel tipo in italiano però è totalmente trash.

L. Ostacola molto anche l’italiano come lingua, che avendo tante sillabe ha bisogno di essere lavorata di più per riuscire a rendere, mentre l’inglese è una lingua molto più ritmica ed è più facile ottenere qualcosa di piacevole.

Solitamente come nasce un brano (a questo punto una canzone, più che una produzione)? Visto come siete riusciti a portare nel vostro mondo artisti come Ghali, Elodie e Sangiovanni, mi viene da pensare che gli artisti si fidino molto di voi, e quindi accettino volentieri il vostro input…è così?

G. Tu considera che di norma l’artista viene in studio da noi perchè ci ha conosciuto e sa che abbiamo prodotto qualche altro artista, quindi l’aspettativa comune è quella di fare una hit, di avere la cosa più figa possibile. Perciò noi a monte ci prepariamo delle idee per l’artista che poi proponiamo e si vanno a fondere con le sue, alla fine è come se fosse una vera e propria collaborazione.

F. Un’altra cosa molto importante che cerchiamo di fare con l’artista è pensare sempre al passo successivo, ossia non rifare una cosa che ha già fatto ma affrontare sfide diverse.

G. C’è poi da fare una distinzione secondo me. C’è il produttore del singolo artista, che è un tipo di lavoro che consiste nel seguire al 100% un determinato progetto, ossia fare da direttore creativo dal giorno 1, e ci sono produttori come noi.

F. Ovviamente agli artisti non interessa venire da noi per rifare quello che potrebbero creare da soli.

G. Esatto. Noi preferiamo essere il team di produttori che non ha mai la certezza del singolo artista da produrre, perchè devi sempre pensare alle novità.

Ma quindi non vi piacerebbe avere un vostro artista da seguire?

E. Dipende chi è l’artista…(ride, ndr)

G. Sì, ci piacerebbe di brutto! Però sarei il primo a consigliargli di andare anche da altri, non ha senso rimanere solo con un produttore.

Però con Il Pagante avete fatto delle cose diverse, e a produrli eravate sempre voi. No?

F. Sì, però lavoravano tranquillamente anche con altri, non c’era nessun tipo di imposizione.

Chiaro, era per dire che è una cosa che siete in grado di fare e che non avete corso il rischio di ripetervi.

G. Con un artista singolo però naturalmente è molto più difficile. La tendenza tra gli artisti è quella di crearsi un mondo dove si fissano dei paletti e dei confini entro i quali muoversi. Per farti il nostro esempio, ad un certo punto Merk&Kremont era un progetto solo di musica da club e festival EDM. Uscire da lì è stato difficile.

Ma è difficile per voi o è difficile per gli altri recepirvi come un’altra cosa?

F. Per noi. Ti spiego: noi per 10 anni abbiamo prodotto tracce da club con il progetto Merk&Kremont, ma in realtà stavamo preparando musica pop già dopo 5 anni dagli inizi. Quindi dopo 5 anni ci sentivamo già pop, ma il fatto è che non avevamo rilasciato ancora niente. Il tuo pensiero è diverso dalla percezione che ha la gente da fuori. Alla fine la verità è che bisogna sbattersi e darsi da fare, se credi nel progetto. Se c’è una cosa che in questi anni abbiamo capito è che bisogna sentirsi stimolati a fare la musica che ti piace ed esserne convinti al 100%, il resto come va va.

Visto che avete parlato del vostro progetto Merk&Kremont, come cambia l’approccio alla produzione rispetto alle tracce pop? Avete un modus operandi diverso? Anche in termini di far valere le proprie idee, ad esempio.

G. La musica da club è cambiata completamente da quando abbiamo iniziato. Il fattore tempo è determinante: se una volta lavoravamo tutti i giorni per cercare nuove idee, oggi non ce lo possiamo più permettere. Dobbiamo pensare prima bene all’idea e poi al come realizzarla.

F. Soprattutto con Marianela, dove è bastato loopare una parola a disco incantato (ride, ndr). Paradossalmente però penso sarà una delle nostre canzoni più ascoltate di sempre, perchè sta avendo numeri assurdi.

G. La vera sfida è sempre pensare a noi e a quello che la gente crede. Per il resto produciamo così tanto e da tanto che non è che abbiamo paura di intraprendere nuovi sound e nuove sfide, sta tutto nel trovare l’idea giusta.

E. Però secondo me anche a livello tecnico cambia tantissimo produrre una canzone per il club o per la radio, è proprio totalmente un’altra cosa. Nel primo caso stai molto di più sui suoni, sull’impatto e molto meno sul dettaglio della melodia, sul come si incastra la voce col suono ecc. Mentalmente è un approccio diverso, anche per il fatto che non lavori in session, quindi non parti a scrivere la canzone con un autore ma è un processo più solitario.

Ed è facile avere questo switch? Cioè che magari la mattina avete una session con un artista e il pomeriggio lavorate ad una traccia elettronica?

F. Sì. Noi abbiamo iniziato con il pop perchè magari quella settimana ci eravamo stancati della musica da club, è stato proprio uno sfogo.

E. Eccome! Anzi, ti aiuta, perchè magari sei inglobato in una cosa per ore e poi switchi completamente e ti viene l’idea che prima ti mancava.

Al contrario dei rapper, sono meno i produttori che aspirano a fare la hit . Anzi, spesso è l’opposto, sono più quelli che cercano di distinguersi con un sound underground/sperimentale. Per arrivare ai vostri lavori però, parlando di qualità e non di numeri, credete sia necessario passare da produzioni più lontane rispetto al genere?

F. Sì e no. Nel senso che un po’ il gusto bisogna averlo, non tanto dal punto di vista tecnico ma di feeling. Capire fino in fondo la vibe che stai andando ad approcciare è importante.

G. Diciamola tutta: il pop è un genere underground che ce l’ha fatta. Se ci pensi, ora il pop cos’è? Una roba che prima era una nicchia e poi lentamente si è riempita di tutti quei suoni più facili e intuitivi. Guarda l’urban. Se pensi al pop 40 anni fa era una cosa diversa, è un genere in continuo cambiamento. Secondo me è più facile fare il pop dal punto di vista degli elementi e della struttura, se una cosa non piace alla gente perchè è troppo ricercata lo capisci subito. Più difficile invece è andare a intercettare quale sarà il pop del futuro, ovvero prendere i generi di nicchia non ancora esplosi e renderli facili. In realtà questo processo è tutt’altro che facile.

L. Se ci pensi poi ora veramente non esiste più il pop degli anni 2000.

Quello era il pop alla Max Martin degli anni d’oro che citavate…

L….esatto, quel tipo di pop non c’è più. Trasformare un genere di nicchia in pop corrisponde al fare la sintesi di quel genere e portarlo al pubblico, è questo il processo.

F. La verità è che ogni sottogenere può diventare un pop. Ad esempio, se ti ricordi Andiamo A Comandare di Rovazzi (prodotta sempre da Merk&Kremont, ndr) era una traccia bass house diventata pop. E sfido chiunque ad aver immaginato che potesse arrivare ad avere un impatto del genere.

Quanto influisce secondo voi il fatto di trovarvi in un ambiente professionale e con altri professionisti? Cioè, fate un back in the days e immaginate di essere ancora in cantina, scambiandovi gli stems come tutti i bedroom producer. Alla fine il risultato sarebbe bene o male lo stesso?

G. Ad essere cambiata è la nostra mentalità. Magari le capacità tecniche per realizzare quello che hai in mente ce le hai a prescindere da dove ti trovi, però trovarsi ogni giorno con artisti che hanno idee, visioni e sogni diversi dai tuoi ti porta ad avere una visione più orizzontale e lucida del fare musica. Se sei in una cantina è come se fossi un po’ sempre dentro il tuo di sogno, e quindi per forza hai sempre i tuoi paletti che ti limitano.

E. Secondo me cambia da 0 a infinito. A noi basta ad esempio semplicemente fare play su una cosa a cui qualcuno sta lavorando con di fianco un’altra persona e, senza neanche bisogno di parlare, capiamo se siamo orgogliosi o no di ciò che sta suonando. Se sei da solo in casa puoi fare play anche 500 volte che non ti accorgi di nulla.

Quindi non ci sono proprio lati negativi nel lavorare in 4?

G. L’unica postilla negativa che si può trovare è che devi essere pronto a rinunciare a qualcosa di cui sei convinto.

F. Però va beh, a volte naturalmente se c’è qualcuno che crede fermamente in qualcosa ci andiamo dietro tutti.

G. Il problema è quando si crea il 2 vs 2 (ride, ndr)

L. Sicuramente tu sai che se una cosa piace a tutti, il fattore è più oggettivo e quindi siamo più sicuri. Però ci sta che se c’è chi è sicuro su un’idea, anche se non è totalmente condivisa, la si possa portare avanti comunque.

Però immagino sia più facile fidarvi tra di voi rispetto che farlo con un autore, un topliner o un artista che vedete per la prima volta.

G. Quello sicuramente. Però talvolta bisogna fare i conti con l’artista che è fermo sulle sue, e si fa così per forza. Ci sono delle scelte di sonorità che magari per noi sono interessanti, ma per l’artista sono troppo esplicite. Alla fine è lui che decide.

F. Ci può stare anche quello, perchè l’artista deve anche e soprattutto essere confident con quello che andrà a cantare live.

L. Poi non sappiamo mai in che tipo di viaggio è quel giorno quell’artista. Magari prepariamo delle idee per lui, poi arriva in studio e stravolge completamente tutto quanto.

F. Sempre in un’altra intervista avevamo letto lo scambio tra Jovanotti e Rick Rubin (produttore del suo disco, ndr), dove quest’ultimo alla domanda su cosa facesse durante la session rispose: “io a dir la verità non so suonare niente. La gente viene da me perchè si fida del mio gusto e della direzione musicale che riesco a dare all’artista”

G. Addirittura gli chiesero per cosa lo pagassero. Lui rispose: “per la mia capacità di decidere“.

F. E in fondo cos’è una canzone, se non un susseguirsi di decisioni una dopo l’altra?

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